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Monica Seles e una coltellata che ci ha privato di un talento immenso

Federico Ferrero

Pubblicato 30/04/2023 alle 08:31 GMT+2

TENNIS - Esattamente 30 anni fa - era il 30 aprile 1993 - ad Amburgo uno squilibrato accoltellò alle spalle Monica Seles, allora tennista numero 1 al mondo, con l'intenzione di favorire la sua rivale storica, Steffi Graf. Operazione riuscita, visto che al ritorno la giocatrice jugoslava non sarebbe stata più la stessa.

Monica Seles incubo di Steffi Graf al Roland Garros: il successo nell'epica finale del 1992

Ci sono cialtroni sfaccendati che cambiano la storia per non essere riusciti a cambiare la loro, di vita. Come quel miserabile di Lee Harvey Oswald, un tizio che (ri)sentirete nominare nei prossimi mesi, all’avvicinarsi del sessantesimo anniversario dell’assassinio del presidente John Kennedy – ah: non fatevi traviare dai complottisti, JFK lo ammazzò proprio lui e chi ve lo scrive non parla a vanvera, ha perso tre diottrie e vent’anni di studi per venirne a capo. Il Lee Oswald del tennis, colui che dirottò gli eventi degli ultimi trent’anni in dieci secondi è – anzi, era – il signor Günther Parche. La storia del nostro sport sarebbe andata in un altro modo, se quel disgraziato non avesse deciso di riscrivere col sangue una trama che non gli piaceva.

Graf vs Seles, l'inizio di una grande rivalità

Riassunto della situazione: dal 1988 in avanti, Steffi Graf prese il controllo del tennis. Si era appena regalata il Golden Slam (i quattro grandi tornei più le Olimpiadi a Seoul) e manco aveva compiuto vent’anni. Nel 1989, solo la mano di un Dio annoiato da tanta dominazione fermò Steffi dal ripetere il Grand Slam, facendo perdere a lei la finale di Parigi contro Arancita Sanchez e a Stefan Edberg, nel contempo, quella contro Chang; qualcuno ci volle vedere la mano del destino perché intanto, in piazza Tienanmen, i coetanei cinesi di Chang fermavano i carri armati opponendo il proprio corpo.
Poi capitò qualcosa. Dio progettò in laboratorio un antidoto. Roland Garros 1990: la figliola di Peter Graf giocò la sua tredicesima finale Slam consecutiva, avendone incassati già nove. Incontrò una ragazzina jugoslava di quattro anni più giovane che non giocava a tennis, almeno non nel senso comunemente inteso, ma a una sorta di spara-la-palla. Con dritto e rovescio a due mani e tutto il resto dell’arsenale da dopolavorista (servizio, volée, smash, smorzate). Graf non era abituata a gestire una vera concorrenza: il turbomotore delle sue gambe, il servizio ficcante e il dritto pesante (così pesante che il futuro marito Andre Agassi ne avrebbe detto: "Molto più forte il suo che quello del mio coach Brad Gilbert") si erano rivelati una combinazione letale per tutte le giocatrici di quell’epoca. Copriva tre quarti di campo col dritto, faceva vincenti con la prima, ogni tanto passava a rete a incassare il punto. Le “vecchie” tenniste serve&volley, tipo Martina Navratilova, venivano bombardate di risposte nei piedi o inchiodate, inermi, a fondocampo da un’atleta che pareva di tre generazioni più avanti; le altre, pur giocatrici dal tennis universale (Gaby Sabatini, Mary Joe Fernandez) tiravano troppo piano per poterle fare del male. I punteggi inflitti da Steffi alle avversarie erano una sequela di 6-0, 6-1, 6-2, 6-3. Una mattanza cronica.
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Monica Seles incubo di Steffi Graf al Roland Garros: il successo nell'epica finale del 1992

Finché, appunto, non piombò sul tennis Monica Seles. Che vinse quel match per il titolo al Roland Garros, 7-6 6-4 e tutti capirono che non era un caso, non era Graf con l’influenza da fieno ma che quella ragazzina dalle braccia rinsecchite era l’insetto predatore antagonista dell’ape regina. Una Sharapova ante litteram, programmata dal padre Karolj per scappare dalla fame e forgiarsi oltreoceano a casa Bollettieri. Mai si era vista una simile capacità di picchiare e anticipare la palla da ambo i lati. E fu quella combinazione a rendere Seles il babau contro cui Steffi non aveva difese. E sì, perché un punto debole la Graf lo esponeva: il rovescio. Quel rovescio che, giocato solo slice, le permetteva di difendersi e di riguadagnare posizione, per picchiare il drittone da tutte le posizioni. Quel rovescio che poi non era così male giocato piatto o topspin ma che il suo coach, Heinz Gunthardt, riteneva potesse andare bene così "perché preferisco farla lavorare per rendere i suoi punti forti ancora più forti che non migliorare quello debole". Una tesi vera, ma solo fino al 1990. Monica Seles bombardava il lato sinistro di Steffi Graf, scambio su scambio, e la rendeva quasi inoffensiva. Del suo becchettino si faceva un baffo, pareva una cerbottana contro la corazza di un carro armato. Una volta martellato il rovescio, tanto da ricavarne una difesa corta o alta e lenta, pum: accelerazione vincente col dritto lungolinea bimane e tanti saluti a Steffi. Certo: non sempre andava così. Sull’erba, per esempio, il ping-pong tennis di Monica funzionava peggio e i tagli di rovescio di Graf meglio ma, tra il 1991 e il principio di quel maledetto 1993, Monica aveva sostanzialmente sostituito Steffi nel ruolo di demiurgo del tennis femminile. Sette degli ultimi nove Slam erano finiti stritolati dai suoi rantoli e da quel ritmo forsennato; tanto pareva sgraziata e incarognita quando colpiva, quanto la sua palla disegnava traiettorie fenomenali. Una specie di Medvedev bi-bimane e senza servizio, ecco. Seles, ormai, vinceva tutto tranne Wimbledon dove, però, stava facendo un cammino alla Nadal: da pesce fuor d’acqua a rischio eliminazione al primo turno a finalista, vedere edizione 1992.
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Monica Seles riceve il trofeo davanti a Steffi Graf, visibilmente delusa - Roland Garros 1992

Credit Foto Getty Images

Quel maledetto 30 aprile 1993 ad Amburgo

Venerdì, 30 aprile 1993. Seles affronta Maggie Maleeva, la più giovane delle tre sorelle bulgare del tennis. Il punteggio è 6-4 4-3 Seles. Cambio di campo. Noia. Si sa già chi vincerà. Nessun cameraman sta inquadrando la panchina di Monica, né gli spalti dietro di lei. Günther Parche è partito da casa con un sacchetto di plastica: dentro ci sono un salame, un coltello, tremila marchi in contanti e, vai a capire perché, un pigiama. Ha trentotto anni, è brutto, mal vestito, sovrappeso e ha il riporto. Di mestiere è tornitore nel distretto industriale di Nordhausen, però ha lasciato il lavoro perché, per buona parte dei colleghi, altri non è che lo scemo del reparto. Non è molto sveglio, in effetti; anzi, probabilmente è clinicamente ritardato anche se non esistono diagnosi - ai tempi era così, come da noi, non si facevano. Vive appartato a casa di una zia, la mamma è morta da molto tempo e il padre chissà dove sta. Non ha amici né affetti, però scrive lettere. Agli sportivi che ama. Soprattutto a lei, alla regina, alla sua diletta Steffi Graf. Le dice che la vuole vedere vincere, sempre Che quelle rare volte in cui perde, lui va al lavoro incazzato se non disperato e i compagni di turno lo prendono in giro, per quella passione insana. È che loro non capiscono, che il suo è il vero amore. Monica Seles gli sta rovinando la vita: Steffi non trionfa più. Non è giusto. Deve fare qualcosa. Finché non viene a sapere che Monica sta per giocare la Citizen Cup di Amburgo. Per la prima volta nella vita, esce di casa per fare più di cento chilometri e si compra un biglietto.
Da quale fila e posto, con quale passo Günther Parche si sia avvicinato alle transenne non si sa, se non per sentito dire. Al processo si sentiranno varie versioni; in appello, qualcuno addirittura sosterrà ci sia stata una inesistente rissa con la vittima. Era un teste che sperava di aggravare la pena a Parche. Monica si china in avanti per bere un sorso d'acqua dal bicchierone bianco che ha in mano e quel gesto istintivo, fatto per non bagnarsi il completino, la salva dalla paralisi se non dal cimitero. La prima coltellata alla schiena le entra nel costato per quasi quattro centimetri, manca la colonna vertebrale per un nonnulla. Mentre Parche sta caricando la seconda, con entrambe le mani sull'impugnatura, due tizi gli volano addosso: uno è uno studente universitario volontario del torneo, si chiama Carsten Malessa; lo prende da dietro per la gola e lo neutralizza. Carsten sarebbe diventato, per un po' di mesi, amico di penna e forse anche qualcosa di più di Monica, lesa nel corpo e nell’anima e convalescente negli Stati Uniti.
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Monica Seles pugnalata ad Amburgo

Credit Foto Eurosport

Seles non si rende conto di cosa sia successo, però sa che è successo qualcosa. Che le è successo qualcosa. Si alza di scatto, prova a toccarsi la schiena che brucia come avesse preso fuoco, tossisce. Barcolla. Ha intravisto una lama "e un tizio con un cappello da baseball e uno sguardo allucinato" dietro di lei. Fa altri due passi verso il centro del campo, dal pubblico arrivano grida e urla, si scatena un parapiglia mai visto su un campo da tennis. Monica collassa. Accorre Zoltan, il fratello, che la regge mentre i paramedici preparano la barella. Lei cerca con lo sguardo il resto della famiglia ma babbo, quel giorno, è rimasto in albergo perché non si sentiva tanto bene.
Sul campo restano strisce strane, non i binari che ricordano le scivolate per rincorrere le palle corte. E una chiazza bruna: non è sangue ma l’acqua versata dal bicchierone. Monica viene portata via e ricoverata, in ospedale è attorniata da poliziotti e medici, non capisce una parola di quanto si dicono e le dicono.
La domenica mattina, poi, va a trovarla Steffi. Piangono insieme, sedute sul letto, dopodiché Graf si congeda. "In che senso devi giocare la finale?", le chiede una costernata Seles. La finale, sì. Il torneo non è mica stato cancellato. Neanche se una partecipante, per inciso la numero uno del mondo, è stata accoltellata da un pazzo per far sì che Graf potesse tornare a vincere. "Quel giorno capii cosa significa veramente business is business", avrebbe scritto Monica nella sua biografia. Continuare a fare soldi nonostante un tentativo di omicidio "perché lo spettacolo deve (deve?) continuare". Quella volta, almeno, si risparmiarono un “lei avrebbe voluto così”, anche perché Monica non era morta.
Lo stesso giorno, la polizia chiede a Seles di identificare i suoi vestitini macchiati di sangue e il coltello usato per l’aggressione. Lei non vorrebbe, loro insistono. Lei cede, guarda dentro il sacco tenuto da un agente. Scorge una maglietta Fila macchiata di rosso, una lama insanguinata. Annuisce. Poi si gira e vomita le budella.

Sliding doors: come sarebbe stato il tennis con Monica al 100%?

Il resto della storia è suppergiù tale: le avversarie di Seles - che poco aveva fatto, fino a quel giorno, per rendersi simpatica, a partire dal perdere ogni tanto qualche match - hanno il fegato di protestare perché le si vorrebbe congelare la classifica. Così votano contro, salvo Gabriela Sabatini che si astiene. Il malessere di quel mattino del 30 aprile risparmiò a Karolj Seles lo strazio di vedere la figlia quasi ammazzata in diretta tivù o, peggio, dal vivo. Sì, ma in compenso fu il primo avviso di un tumore che se lo sarebbe portato via alla svelta. Facile intuire che Amburgo sia diventato, per lei, l’inferno sulla Terra e non ci abbia mai voluto rimettere i piedi. Nonostante la riabilitazione, la psicologia e tutti i milioni di dollari con cui si poteva garantire una vita di lussi in una splendida mansion, Seles sprofondò in una crisi umana devastante. Non sapeva più chi fosse, se non un piccolo animale ferito senza identità né futuro, privata della sua racchetta, della sua vita. Aveva diciannove anni. Diciannove. Divenne bulimica, ritardò il rientro per mesi che divennero anni. Per tirarla fuori dal torpore depressivo e dal terrore di tornare a dare le spalle al pubblico mentre giocava a tennis ci volle Martina Navratilova, che le organizzò una esibizione ad Atlantic City nell’estate 1995. Sempre lei, da presidentessa Wta, propose di mantenere la prima posizione ex-aequo, quando Monica riprese a giocare. Perché le altre – provate a indovinare? – non erano d’accordo.
Con Seles resa inoffensiva, Parche vinse tutto. Steffi Graf, pure. Completò un altro “Steffi Slam” trionfando a Parigi, Wimbledon, Us Open ’93 e Australia ’94. Si intascò altri tre quarti di Slam nel 1995. Monica tornò in tempo per contenderle, con venti chili di dolore in più su cosce e fianchi, il titolo a Flushing Meadows. Le strappò il secondo set a zero, ricordando al mondo quanti ne avrebbe potuti vincere.
Rinunciò a testimoniare al processo, nel corso del quale emerse la passione malata di Parche per "le gambe sinuose e fantastiche" di Steffi Graf e la sua "pulizia, onestà e purezza". Erano discorsi che faceva in fabbrica. Più che la sua moglie ideale, Steffi era diventata la sua Madonna. E a lui toccava salvarla dal male, dal diavolo. Da Monica. Seles dovette accettare un verdetto di condanna striminzito - due anni con la condizionale, per un’accusa di lesioni e non tentato omicidio! – diminuito dalla incapacità di intendere del reo. Che l’accoltellatore fosse un pazzo, del resto, era piuttosto chiaro; altrettanto lo fu che il tennis non si mostrò capace, né soprattutto intenzionato, a prendersi la responsabilità civile di una sventura simile, abbandonando la sua rappresentante più forte al proprio destino. In questo sì, che si sente quanto siano passati trent’anni.
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Steffi Graf e Monica Seles - Finale US Open 1995

Credit Foto Getty Images

Senza un Lee Oswald che tolse di mezzo Kennedy e piazzò Lyndon Johnson e poi Nixon, Monica Seles avrebbe continuato a mietere successi verso la sua Nuova Frontiera. Pensare che avrebbe collezionato almeno altri venti Slam non è solo opinione dello scrivente: il 2002 fu il suo ultimo anno pieno di attività agonistica e, nonostante un ginocchio mezzo rovinato, un peso eccessivo da portare a spasso per il campo e i trent’anni dietro l’angolo, ancora dava la paga alle varie Hingis, Venus, Capriati, Henin, Clijsters, Davenport, Sharapova. Le batteva tutte. Invece, la sua seconda carriera da superstite finì con sole – per lei, pochissime – quattro finali Slam e un successo, gli Australian Open del 1996.
Proprio in questi giorni, si è saputo che Günther Parche è morto, a 68 anni. Ma non ora, lo scorso agosto. Era internato in una casa di cura di Nordhausen, aveva avuto almeno un ictus, tutti si erano dimenticati di lui, se mai se ne fossero ricordati una volta finito il processo. La gente del posto sostiene che fosse un anziano quieto, sulle sue. "Ma lui è sempre stato così, anche da giovane – racconta un compaesano - Non beveva, non fumava, non aveva la patente per l’auto, neanche un motorino, non usciva, non aveva compagnie". Di certo non ha mai più offeso, aggredito né dato fastidio ad alcuno. Del resto, una volta resosi attore dell’evento più devastante del tennis contemporaneo, dieci secondi che hanno deviato per sempre le orbite dei pianeti e ridisegnato gli eventi nel modo che conosciamo noi, non ne avrebbe avuto motivo. Aveva ottenuto il suo scopo.
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