Da George W. Bush a Raven Saunders: storia critica della Rule 50

Jacopo Pozzi

Pubblicato 28/06/2024 alle 09:24 GMT+2

GIOCHI OLIMPICI - La struttura alla base della Rule 50 è stata scritta e aggiunta alla Carta Olimpica nel 1975 e recita che “ogni forma di dimostrazione o propaganda, che sia politica, religiosa o razziale, è proibita in tutte le aree Olimpiche”. Una formula rivisitata e riscritta nel corso degli anni, e anche una formula diventata ormai inadatta ad accogliere il presente.

Forza e personalità: Raven Saunders è uno spettacolo a Tokyo 2020

Raven Saunders è alta un metro e sessantacinque, e pesa quasi 110 chili: il suo corpo non rispecchia i canoni estetici imposti dalla nostra epoca contemporanea, e di questo, lei, è profondamente consapevole. È nata e cresciuta in Sud Carolina e poi si è trasferita in Mississippi, per frequentare il College, dividendo così gli anni della sua formazione tra due Stati del profondo sud americano. Stati ancora profondamente ancorati alla retorica razzista e segregazionista. Stati, in particolare il Mississippi, dove la lotta per la libertà si combatte porta a porta, strada per strada, contro i fantasmi di un passato che dovrebbe essere morto e sepolto, ma che non lo è, e che anzi rischia di tornare di moda alle prossime Presidenziali. Stati di razzismo ornamentale, quella forma di discriminazione sottile soltanto in apparenza che non grida il disgusto in faccia a nessuno, ma che continua con regolarità e precisione a presentare al Mondo piccoli-grandi simboli di disuguaglianza, di intolleranza e di violenza. Fino a quattro anni fa, per esempio, la bandiera dello Stato del Mississippi riproduceva, in alto a sinistra, dove in quella americana stanno le stelline, una copia perfetta dell’antico stendardo confederato: un vero e proprio ricordo attivo, non soltanto della schiavitù e del dolore, ma anche di chi, pur di mantenere i vantaggi politici e sociali derivanti da quella schiavitù e dal quel dolore, ha accettato di affrontare e perdere una guerra civile. La bandiera è stata cambiata, nel 2021, l’anno di Tokyo, ma quando Raven Saunders, che è nera, che è corpulenta, che è apertamente lesbica, che usa i pronomi they/them e he/him per riferirsi a sé stessa, che si tinge i capelli e che è fiera della propria impenitenza, competeva in Mississippi, difendendo i colori della University of Mississippi, lo faceva sotto ad un pezzo di stoffa svolazzante, inchiostrato da oltre 100 anni da una X blu con le stelle bianche su fondo rosso: l’ultima immagine che migliaia di oppressi hanno visto prima di essere linciati.
picture

Raven Saunders

Credit Foto Getty Images

 
La prima volta in cui ho parlato con Raven sono rimasto colpito da due cose: la sua bigger than life personality e la sua semplicità. Ho impiegato mesi a fissare un appuntamento con lei, perché il caos regna la sua agenda e perché la tutela della mental health è il suo principale cruccio quotidiano, e quindi  le porte sugli spazi privati vengono aperte raramente, e solo in determinate condizioni. Una premessa difficile dal punto di vista organizzativo, magari, ma che mi piace, perché significa che quando poi un atleta quello spazio lo concede davvero, ciò che ti verrà offerto è sincero, e non la “copia di mille riassunti”. C’era un motivo specifico se volevo tanto parlare con Raven, ed era la volontà di comprendere il flusso di coscienza che l’aveva accompagnata dalle violenze psicologiche della gioventù, al disastro Olimpico di Rio, un percepito che l’avrebbe spinta anche a tentare il suicidio, fino alla ricostruzione di un equilibrio umano e prestativo, che a Tokyo 2020 l’aveva condotta all’argento Olimpico nella gara del getto del peso.
Dopo anni trascorsi in quel tipo di sofferenza personale che solo colui che viene discriminato giornalmente per quel che è può conoscere, Saunders ha trovato nello sport la forma d’espressione più immediata e soddisfacente: “vediamo chi lo butta più lontano, vediamo chi è più forte”. Maschere, capelli tinti e piercing: la sua ascesa sportiva è andata di pari passo con la liberazione della sua prima natura, la più profonda e intima, che ha iniziato a manifestarsi in pedana. Un processo di auto-alimentazione, dove era il risultato sportivo a sostenere e a giustificare l’esistenza di un essere umano che altrimenti, senza quei successi, non avrebbe avuto neppure il diritto di essere oppure di essere fiera di essere. Così, quando a Rio è finita quinta, lontana dalla medaglia che avrebbe suggellato per davvero la sua seconda venuta al Mondo, è caduta in un profondo stato depressivo, di cui lo spettacolare tentativo di suicidio del 2018 poteva anche essere l’epilogo.

picture

Forza e personalità: Raven Saunders è uno spettacolo a Tokyo 2020

Tre anni più tardi, tre anni di terapia, di allenamenti e di kintsugi più tardi, Raven saliva sul secondo gradino di un podio olimpico, nel vuoto pneumatico di uno stadio reso fantasma dal COVID. Con i capelli mezzi verdi e mezzi viola, un pesante anello sulla narice sinistra, i piercing e gli orecchini, la medaglia al collo, la mascherina in una mano e un bouquet di girasoli nell’altra, con lo sguardo determinato eppure spento, come quello di un uomo che sa che arriverà un ceffone ma si è imposto di non reagire: in quel preciso istante lei ha alzato le braccia al cielo e la ha unite a formare una X. La stessa identica X della bandiera confederata, ma qui esposta al mondo come il simbolo di due strade: un punto di ritrovo, l’incrocio in cui tutto coloro che hanno sofferto sono i benvenuti.
Poco dopo, il CIO ha iniziato una procedura d’indagine per la violazione della Rule 50, prassi che avrebbe anche potuto costringerla a riconsegnare la medaglia. Ricordo il sorriso carico di Raven quando mi ha detto: “avrei proprio voluto vederlo, il funzionario che viene nella mia stanza per provare a prendere la mia medaglia”. Un sorriso pieno di incredulità. La procedura d’indagine venne archiviata, un paio di giorni più tardi, quando la mamma di Saunders è morta, e venne archiviata, letteralmente per compassione. Ecco, quando penso alla Rule 50 della Carta Olimpica, io penso alla storia di Raven.
 
È impossibile pensare di riassumere 120 anni abbondanti di dinamiche politiche e sociali dentro ad un singolo pezzo, così come è impossibile pretendere che l’impalcatura di una regola e delle sue prassi, si adegui automaticamente al tempo che passa, aggiustando i propri recinti al presente senza colpo ferire. Senza battaglia. In fondo, la bandiera del Mississippi non è cambiata da sola, ma sono serviti anni di discussioni e di proteste, quasi sempre ad opera di minoranze inascoltate. La struttura alla base della Rule 50 è stata scritta e aggiunta alla Carta Olimpica nel 1975, come parte dell’allora Rule 55, e recita che “ogni forma di dimostrazione o propaganda, che sia politica, religiosa o razziale, è proibita in tutte le aree Olimpiche”. Una formula rivisitata e riscritta nel corso degli anni, e anche una formula diventata ormai inadatta ad accogliere il presente. La maggior parte degli storici dello sport fanno risalire la genesi della Rule 50 agli strascichi politico-sportivi delle Olimpiadi di Città del Messico, del 1968, quelle del massacro di Piazza delle tre culture, disperatamente e divinamente raccontato da Oriana Fallaci. Quei Giochi vennero disputati in un clima geopolitico spettrale, tra le recrudescenze della Guerra Fredda, gli assassini di Martin Luther King e di Robert Kennedy, la Primavera di Praga, il Maggio francese, e la carestia in Biafra, talmente iconica da essere ancora, ai giorni nostri, è diventata una parola di uso comune, pur lontana ormai dalla sua origine. La politica internazionale, sorretta dagli schieramenti capitalisti e comunisti, ed elevata a culto, era la forza dominante in tutto il Mondo: la direttrice del sapere, del potere e della costruzione del futuro. Soprattutto per le élite culturali. Élite che oggi, per esempio, sono molto più coinvolte dalle dinamiche economico-finanziarie e da quelle sociali, che non dalla vecchia politica. I Giochi messicani restarono nell’immaginario collettivo per la protesta di Tommie Smith e di John Carlos, i due velocisti americani che alzarono il pugno guantato in nero per protestare contro il razzismo, e che poi vennero ostracizzati da tutto il movimento olimpico, compreso quello americano, per oltre 50 anni. E nessuno potrà mai dimenticare la ginnasta ceca Věra Čáslavská, vittima di un paio di ingiustizie sportive diverse nell’arco delle stesse Olimpiadi, che quando si ritrovò sul podio insieme a Larisa Petrik, voltò le spalle alla bandiera sovietica, per protestare contro l’invasione della Cecoslovacchia. Un gesto di coraggio che significò perdere il diritto di viaggiare e l’obbligo a chiudere anzitempo la carriera sportiva.
picture

16 ottobre 1968 - Smith e Carlos e quel pugno chiuso a sfidare il razzismo

 
Ma l’ingerenza della politica, sia da parte degli individui che degli Stati partecipanti, non era certo una novità degli anni ‘60, e dal giorno stesso della nascita delle Olimpiadi moderne, l’appetibilità del soft power che si può applicare sul palcoscenico dei Cinque Cerchi è stata una molla rilevante nello sviluppo delle dinamiche sportive globali. Senza scomodare i Giochi del 1936, con la macchina della propaganda nazista all’opera per presentare al Pianeta la propria visione di un’umanità rivisitata e corretta, tutta la storia Olimpica è costellata di individui, di squadre, di federazioni e di intere Nazioni che hanno utilizzato quel momento di massima esposizione mediatica per promuovere la propria agenda, spesso in maniera esagerata e intollerabile (almeno ai nostri occhi moderni), perché forti di un determinato peso specifico dentro le stanze dei bottoni. La lista delle proteste, delle ingiustizie e dei boicottaggi è potenzialmente infinita, e anche tremendamente sterile, almeno a parlarne qui e ora. Quello che diventa davvero rilevante per affrontare l’argomento oggi, è comprendere come il contesto degli ultimi 30 anni abbia cambiato i connotati dello sport e della politica globali, di fatto rendendo sia più necessario che più doloroso il controllo sugli atleti, e generando per questo un doveroso risentimento.
Dagli anni ‘70 in avanti, la presidenza CIO di Lord Killanin ha promosso un cambio di prospettiva, finalizzato a fare di quello Olimpico un movimento economicamente virtuoso, capace cioè di generare denaro in maniera sistematica attraverso delle partnership commerciali, attività prima “delegata”, quasi interamente, ai Comitati Organizzatori. Una parabola poi completata dall’opera di Juan Antonio Samaranch, in un momento storico, come quello degli anni ‘80 e ‘90, in cui lo sport professionistico è definitivamente esploso, attirando così interessi milionari delle grandi aziende multinazionali in cerca di visibilità. La politica in senso stretto, dopo la caduta del Muro di Berlino, è passata in secondo piano, soppiantata dalla rilevanza e dal peso di nuove correnti internazionali, per lo più di natura finanziaria ed economica. Il capitalismo estremo e la globalizzazione, con le loro iniquità, sono diventati la stella polare di qualsiasi tipo di industria, dalle comunicazioni all’alimentare, dalla moda allo sport. Ed ecco che, all’improvviso, non erano più gli Stati in guerra tra loro  (e tutte le conseguenti derivazioni) la principale minaccia alla presunta neutralità Olimpica, alla pretesa di vivere i Giochi dentro una bolla a-politica, ma lo sono diventati gli atleti. In un processo lento e complesso, che solo negli ultimi 10 anni sta vedendo la piena concretizzazione, gli atleti, forti di una nuova libertà economica, di una moderna indipendenza di pensiero e di una grande esposizione mediatica hanno iniziato a diventare degli opinion leader molto ascoltati. Non sempre e non tutti, ovviamente, ma basta osservare le polemiche sulle ultime elezioni francesi e le parole di Mbappé per comprenderne la portata.
Juan Antonio Samaranch
 
Questi due processi, l’empowerment degli atleti e la crescita degli interessi commerciali che gravitano intorno al circuito Olimpico, talvolta rischiano di sovrapporsi, generando dei pericolosi corto circuiti e delle interpretazioni personalistiche della Rule 50. Come si può indagare un atleta con il vissuto di Raven Saunders per aver fatto una X con le braccia e contestualmente ignorare le denunce delle decine di no-profit che hanno protestato contro alcune assegnazioni Olimpiche, come Sochi 2014 o Pechino 2022? Non è forse un atto politico scegliere un Paese ospitante piuttosto che un altro? E quali sono i pesi degli sponsor Olimpici, all’interno di tali selezioni? Purtroppo gli esempi, anche qui, si sprecano e sono molto più vicini a noi di quanto si potrebbe mai pensare. Per i Giochi di Sochi vennero istituite delle apposite aree di protesta, ma vennero messe talmente distanti dai siti di gara da vanificare qualsiasi possibile effetto. E mentre il Mondo si godeva le Olimpiadi del ghiaccio e della neve, al Cremlino, il governo di Putin approvava una serie di leggi omofobe dal sapore medievale. Per Pechino 2008, dopo mesi di pressioni, si organizzarono delle aree in cui fosse consentito protestare, previa richiesta scritta di autorizzazione. Un’apertura che significò tanta stampa positiva per il Comitato organizzatore. Peccato che delle 77 richieste nessuna passò il vaglio della censura, e che alcuni degli applicants finirono persino con l’essere incarcerati: notizie diluite dalla grande attenzione mediatica riservata allo sport, durante i Giochi.
picture

Vladimir Putin (2014)

Credit Foto Getty Images

 
Il Comitato Olimpico sa di dover rivedere gli estremi della Rule 50, perché oggi come oggi, fortunatamente, è impossibile impedire agli atleti più esposti e schierati di parlare e di sostenere le proprie cause, che nella stragrande maggioranza dei casi riguarda l’emancipazione e la qualità della vita delle minoranze e degli oppressi. Ma la transizione è lenta e, come nel caso di Raven Saunders, talvolta dolorosa, perché sembra mettere nel mirino l’individuo virtuoso, e continuare a premiare  l’opportunismo economico e politico. Dire che i Giochi sono sempre stati e sempre dovrebbero essere apolitici è un falso ideologico, e cambiare la Rule 50 significherebbe riconoscere che oggi le battaglie politiche riguardano più la qualità della vita e la tutela dei diritti umani che non il potere militare come nel Secolo scorso. Ma farlo significherebbe anche affrontare i lati oscuri del capitalismo, quegli stessi meccanismi che fanno dei Giochi una macchina che genera denaro. E per aiutare questi processi, sostenere gli atleti e comprendere le regole è un aspetto fondamentale, perché molto spesso la politica, anche quella sportiva, si gioca sulle sfumature di significato. Come quando il Comitato Organizzatore russo, sempre per Sochi, organizzò una doppia diretta della Cerimonia d’Apertura, proponendo al pubblico televisivo sovietico un numero spropositato di inquadrature della bandiera, di Putin e dei simboli comunisti presenti, e al pubblico internazionale una versione calmierata.
picture

Salt Lake City 2002

Credit Foto Getty Images

O come quanto il democraticamente eletto George W. Bush, chiamato a fare il discorso di apertura a Salt Lake City 2002, decise di stropicciare il cerimoniale per il proprio interesse politico, dichiarando “aperti i Giochi” a nome di una nazione “proud, determined and grateful”, tre aggettivi che anticipavano al Mondo la futura rivincita americana post 11 settembre e che ovviamente sarebbero vietati dalla Carta Olimpica. Va da sé che nessuno si sognò di impugnare la Rule 50 contro il Presidente degli Stati Uniti, mentre, vent’anni più tardi, si è andati vicini a togliere la medaglia a Raven Saunders, che si è vista graziare soltanto, incredibile a dirsi, dalla morte della madre.
picture

Tokyo 2020: Lijiao Gong vince l'oro nel getto del peso davanti a Raven Saunders


Più di 3 milioni di utenti stanno già utilizzando l'app
Resta sempre aggiornato con le ultime notizie, risultati ed eventi live
Scaricala
Condividi questo articolo
Pubblicità
Pubblicità