La passerella di Marchand e l’ombra di Phelps: sarà red carpet o miglio verde?

Jacopo Pozzi

Aggiornato 21/06/2024 alle 12:49 GMT+2

PARIGI 2024 - Léon Marchand, a Parigi 2024, è destinato a camminare sulla passerella della Storia, che poi questa diventi un red carpet oppure il miglio verde dipenderà soltanto da lui e dal fato, quel che è certo è che lo farà con addosso lo scintillio degli occhi di un’intera specie.

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La Storia, quella maiuscola, che si manifesta magicamente al via di ogni appuntamento olimpico, ha un modo curioso di celebrare se stessa. Uno stile elegante e pungente di raccontarsi, a beneficio di chi non c’era e quindi può soltanto ascoltare, e a beneficio di chi ci sarà e, nell’attesa del momento, può soltanto fantasticare. Prendendo in prestito la creatura più riuscita di Akira Toriyama, il visionario artista dietro la saga di Dragon Ball, recentemente scomparso e al quale è stato intitolato un diffusissimo culto laico, lo sport è “la stanza dello spirito e del tempo” dell’umanità: un luogo di eterno e di assoluto, dove le leggi della fisica scompaiono, piegando i propri bordi fino a toccarsi, riunendo nello stesso arco il passato, il presente e il futuro. Dai salotti dei ben-pensanti agli studi televisivi dei cronisti meglio informati, dalle riviste di settore ai bar dello sport, iconici crocevia del sapere popolano che ormai non esistono quasi più, sostituiti dai più democratici e pericolosi social: in ogni dove il richiamo della grandezza è impossibile da arginare, e di fronte al talento più puro riparte, puntuale, l’antica litania. Maradona o Pelé, Michael Jordan o Lebron, Carl Lewis o Usain Bolt, Agassi o Federer, Goku o Vegeta? Il confronto con i decenni ormai aggrinziti stuzzica la fantasia, e non soltanto perché ogni disciplina cresce nel tempo, riscrivendo le proprie prassi e i propri limiti anno dopo anno, e non soltanto perché il contesto muta di continuo, con il professionismo feroce dei nostri giorni che trasforma ogni minima intuizione in un vantaggio, per quanto infinitesimale, ma anche, se non soprattutto, perché mettere in discussione le pietre miliari di qualcuno significa minarne le certezze, sgretolarne i miti fondativi. Attaccarne l’intera impalcatura.
 
E se Maradona lo mettessi nel calcio di oggi? Il campo perdonerebbe mai gli eccessi della sua personalità, o finirebbe con l’evidenziarne ogni piccola sbavatura, ogni pausa, ogni secondo passato con le mani sui fianchi? E lui, allenato come ci si allena oggi, con le tecnologie che si applicano ad ogni sfumatura del sapere umano, sarebbe un leone in gabbia o sarebbe un calciatore migliore di quanto sia mai stato negli anni ‘80 e ‘90? Anni di pane e Nutella. Anni di mediani assassini. Anni di sigarette. Nello sport, il passato è un'ancora dell’infanzia, un elisir di lunga vita: un fagiolo di Balzar, che cancella il dolore presente e che ti ricorda, ancora e ancora, ciò che ti ha fatto innamorare per la prima volta. Squadre di Peter Pan con la racchetta, con il pallone oppure con cuffia e occhialini, guardiamo indietro con lo stesso trasporto con cui ripensiamo ai ricordi più cari, perché nel confronto tra ciò che è stato e ciò che sarà, vince sempre e comunque la nostalgia. Eppure, lo abbiamo detto, lo sport e la storia hanno un profondissimo senso comico, che con uno schiocco delle dita, in verità, ha il potere di essere, immediatamente, tragedia. E ci sono profili che obbligano il mondo, dalla stampa ai semplici appassionati, a riflettere su di loro il potere del ricordo, con una tale veemenza da riportare in vita il confronto con la mitologia moderna, nonostante i consigli del buon senso.
 
Léon Marchand, a Parigi 2024, è destinato a camminare sulla passerella della Storia, che poi questa diventi un red carpet oppure il miglio verde dipenderà soltanto da lui e dal fato, quel che è certo è che lo farà con addosso lo scintillio degli occhi di un’intera specie. Mezzi anfibi e mezzi mammiferi, tutti i nuotatori del Pianeta, in Francia, guarderanno con attenzione alle gesta questo esemplare raro, ultimo in ordine di tempo di una linea dinastica senza precedenti, sia per quel che riguarda la famiglia d’origine, che per quanto riguarda quella d’adozione. Francese, è nato dall’unione di Céline Bonnet e di Xavier Marchand, due ai quali devono essere serviti anni di docce per smettere di odorare di cloro. Vite intere dedicate alle corsie: la mamma è stata una mistista, una primatista nazionale, e un membro della spedizione Olimpica a Barcellona 1992. Mentre papà Xavier, di Giochi ne ha vissuti ben due, Atlanta ‘96 e Sidney 2000, e nel corso della carriera ha persino vinto qualche medaglia mondiale ed europea, sempre nei misti, ça va sans dir. Figlio d’arte da entrambi gli affluenti, il fiume Léon ha iniziato presto ad ingrossarsi, macinando chilometri e prediligendo, in quanto a stile, il business di famiglia.
 
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Dall’altra parte del Pianeta, più o meno negli istanti in cui veniva concepito il genietto francese, un altro talento dalla silhouette gracile, una fragilità che presto sarebbe stata spazzata via dai muscoli e dall’aura di imbattibilità, iniziava a farsi riconoscere per ciò che era destinato a diventare: il migliore di sempre. Senza se e senza ma. Senza dubbi e senza però. Senza alcun pregiudizio generazionale. Michael Phelps è il nuoto, almeno quanto Tiger Woods è il golf, quanto Tony Hawk è lo skate,  e quanto Muhammad Ali è stato, è, e sempre sarà, la boxe. Michael era cresciuto tra le corsie del North Baltimore Aquatic Club, dove un giovane allenatore, appena trentenne, lo aveva convinto a lasciar perdere tutte le altre discipline, che il suo posto era in piscina, e non sul diamante del baseball e neppure sul campo da calcio. Parafrasando una fortuna reclam di fine anni ‘90, così per restare in tema, due geni is meglio che one, e l’incredibile matrimonio tra uno dei talenti più cristallini della storia dello sport e uno dei coach più innovativi di sempre, che rispondeva e risponde al nome di Bob Bowman, finì col produrre un arco sportivo irripetibile, che ha issato  Phelps sulla cima del cucuzzolo della montagna. Una montagna che si chiama Olimpo, e che sono in migliaia, ogni giorno, a mettere nel quadrante dei propri sogni di gloria. Bob Bowman di campioni ne ha allenati diversi, nel corso degli anni, da Allison Achmitt a Chase Kalisz, passando pure per il francese Yannick Agnel, ma niente e nessuno mai lo avrebbe scosso ed emozionato quanto la prima volta in cui ha visto nuotare Michael dal vivo. Almeno non fino al 2019, quando Phelps ormai era bello che in pensione.
 
Sydney 2000 conquistata a soli 15 anni, il più giovane nuotatore americano dal 1932. Atene 2004 a 19, con 6 ori e due bronzi subito in bacheca, a cui seguirono un numero insensato di medaglie Mondiali e il capolavoro di Pechino 2008: l’impresa delle imprese, l’annientamento del record di Mark Spitz, la scalata al cielo per scalpellare la propria effige sul monte Rushmore dello sport mondiale. 8-ori-8, con 7 Record del Mondo e un record Olimpico: l’impensabile era stato pensato, poi programmato, ed infine realizzato. E poco importa se Londra avrebbe portato altre 6 medaglie di cui 4 d’oro, e Rio altre 6 ancora, di cui 5 d’oro, con l’ossequiosa parata dei grandi dello sport accorsi ad osservare l’ultima gara di The Baltimore Bullet, il solo atleta più grande dei Giochi stessi, perché nulla sarebbe mai riuscito a superare la meraviglia e lo stupore generati 8 anni prima, dentro al Water Cube di Pechino nord, sede dell’allunaggio. Da quel momento in avanti Phelps è diventato un’icona globale, e altrettanto hanno fatto i suoi tempi, veri e propri schiaffi alla logica e alla matematica, con un crono in particolare, quello dei 400 misti, la sua gara per eccellenza, che si è fatto sinonimo dell’impossibile, dell’inarrivabile, di ciò che è sacro e per questo non si deve neppure nominare. Ad essere del tutto onesti, anche il Record dei 200 farfalla era “di un altro Pianeta” e sarebbero serviti dieci anni e l’avvento di un marziano, l’ungherese Kristòf Milàk, ad abbassarlo di nuovo, ma quel 4.03.84 sulla gara più dura sembrava davvero la lapide alle ambizioni del genere umano. Genere umano che prima del suo avvento, in questa gara, nuotava quasi 10 secondi più lento di lui. Ritirato il campionissimo, con il titolo di vera divinità Olimpica, il buon vecchio Bob è andato alla ricerca di un nuovo prospetto, cosciente che tanto, di quella stoffa lì, non avrebbe mai più incontrati.
 
Ma si sbagliava. Per sua stessa ammissione, si sbagliava, perché quando, anni dopo, ha incrociato con lo sguardo le bracciate del virgulto di casa Marchand, le pupille gli si sono dilatate, come sotto l’effetto di un allucinogeno che il corpo aveva ormai dimenticato. Léon era già un progetto di adulto, non un bimbo come Michael al tempo del primo incontro, ma le somiglianze erano tutte lì da vedere, anzi da ammirare, tra la predilezione per i misti, la ferocia agonistica e la fluidità in acqua, che i nuotatori chiamano “acquaticità” senza che questo significhi qualcosa per il resto degli esseri umani. Così, ammaliato (e a ragione) dalle sirene di chi era riuscito a “creare” il mito di Phelps, il giovane francese è partito alla volta degli Stati Uniti, per nuotare alla corte di Bob Bowman e dall’Arizona State University. Ben lontano dall’essere un enfant prodige, come Michael, a Léon è servito del tempo per adattarsi allo stile americano, che è proprio un modo di intendere lo sport, non soltanto di allenarsi. Si nuota in yard, nel circuito NCAA, e soprattutto si nuota poco. Forse si parla persino meno, diventando tutti o quasi dei piccoli-grandi oggetti misteriosi, che poi calano dall’alto per distruggere e saccheggiare Olimpiadi e Mondiali. A chi capisce di nuoto non è sfuggita l’ascesa internazionale di Marchand, guidato dall’allenatore di Phelps proprio nelle gare di Phelps, ma per il grande pubblico, il reveal party è avvenuto soltanto nel 2022, con la doppietta sui 200 e i 400 misti, ai Mondiali di Budapest. 12 mesi più tardi Léon era già una delle facce più attese del Mondiale successivo, ravvicinato causa strascichi del COVID, ed è lì, tra le corsie di Fukuoka, che ha dato una spallata ai capitoli del manuale. Prima vincendo i 200 farfalla. Poi vincendo e siglando il Record Europeo nei 200 misti e infine, vincendo i 400 misti, durante i quali, a 15 anni dal Record di Phelps, ha riscritto i limiti dell’uomo, demolendo il crono di un secondo e mezzo, con una tale facilità da spingere tutti a credere possibile anche l’abbattimento del muro dei 4 minuti. E chi conosce i nuotatori sa che certi numeri tondi, provocano loro dei brividi di godimento e paura. Premiato direttamente da Phelps, su quel podio ha iniziato un lungo processo di avvicinamento ai Giochi di Parigi: il palcoscenico perfetto per fare di un francese l’uomo del futuro. Possiamo dirlo, quasi con certezza matematica: Lèon non replicherà la Pechino di Michael, né tanto meno ci andrà vicino, perché tre ottavi degli ori del 2008 sono arrivati dalle staffette americane, mentre quelle francesi non sono di quel livello, e perché nelle sue gare secondarie, i 200 rana e i 200 farfalla, saranno presenti gli attuali primatisti del Mondo, Milak e il cinese Qin Haiyang, rendendo la sfida semplicemente impossibile. Eppure tutta la Francia aspetta questo ragazzo sul blocco di partenza, pronta a fare di lui la copertina di questi Giochi, e pronta, come tutti coloro che profumano di cloro e forse come lo stesso Phelps, ad impazzire di incredulità per un cronometro che si ferma a tre minuti e 59 secondi. Perché il confronto tra il passato e il presente, sotto sotto, è soltanto un gioco di prospettive: la costruzione di una mistica comune, che ci permette di discutere, di scommettere, di litigare persino, in nome della nostra inossidabile sindrome di Peter Pan.
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