Olimpiadi 1924-2024, diversissimi eppure uguali: Parigi 100 anni dopo, cosa è cambiato e cosa è rimasto identico

Jacopo Pozzi

Pubblicato 06/05/2024 alle 10:20 GMT+2

Parigi 2024 è alle porte, e nonostante la passione per il nostro passatempo preferito non abbia limiti e confini, l’edizione francese ha già un sapore diverso. Sono dodici anni, che fanno, in totale, 5 cicli olimpici, due estivi e tre invernali, che i Cinque Cerchi sono distanti dal cuore dell’Europa. Scopriamo insieme cosa è cambiato rispetto all'edizione del 1924 sempre nella capitale francese.

1924-2024, diversissimi eppure uguali: Parigi 100 anni dopo

Credit Foto Eurosport

C’è chi ci metterebbe la firma, per campare cent’anni. E chi invece preferirebbe di no, che poi si diventa vecchi e decrepiti, e la vita non è più come quella di prima. Ci sono secoli interi della storia dell’uomo che si perdono nei manuali di scuola, più o meno identici ai precedenti e ai successivi, in cui lo scorrere del tempo è stato stanco e silenzioso, quantomeno visto da qui. Quantomeno visto dal futuro. Decenni di povertà o di ricchezza, costellati di piccole o grandi aggressioni territoriali, poi riassunti in poche righe nella grande cronaca passata che facciamo dell’Occidente. Poi, però, ci sono epoche diverse, come quella che stiamo vivendo adesso, proprio ora, in cui basta un istante di sonno per ritrovarsi in un mondo nuovo, completamente differente da quanto conosciuto prima. Straniante e disperato. Velocissimo e pieno di prospettive. Meritocratico e solitario. Crudele e accomodante insieme. Il ‘900, così come il primo quarto del Millennio nuovo, è stato un’incessante sguardo al futuro, una costante riscrittura del presente, progettato e combattuto a suon di rovesciamenti immediati ed improvvisi. Le Guerre, quelle che scriviamo con la G maiuscola, almeno da questo lato del Pianeta, euro-centrici come siamo. Ma anche quelle fredde. Quelle silenziose e quelle coloniali. Quelle subdole e quelle d’occupazione. Un sotto-testo di tutta la nostra esistenza, che sembra sempre capace di trovare un modo inedito per imporsi alla politica internazionale. E poi le rivoluzioni: quella rossa, quella contadina, quella fascista, quella dei costumi, quella digitale. E le corse, anch’esse innumerevoli: allo spazio, al benessere, all’informazione. La verità è che se un uomo o una donna degli anni ‘20, una persona adulta e matura durante i mesi dei Giochi di Parigi 1924, venisse teletrasportato ai giorni nostri, non avrebbe alcun mezzo oppure competenza, neanche uno straccio di speranza, per comprendere chi siamo, cosa ci guida, cosa ci motiva e in che cosa, oggi, crediamo. Né tanto meno, potrebbe mai capire che cosa sia successo allo sport, nel secolo che lui, oppure lei, ha saltato a piè pari. 
Parigi 2024 è alle porte, e nonostante la passione per il nostro passatempo preferito non abbia limiti e confini, l’edizione francese ha già un sapore diverso. Sono dodici anni, che fanno, in totale, 5 cicli olimpici, due estivi e tre invernali, che i Cinque Cerchi sono distanti dal cuore dell’Europa. Distanti dal loro mito fondativo. Sochi, assegnazione invecchiata così-così dal punto di vista geopolitico, e poi Rio, Pyeongchang, Tokyo e infine Pechino, con la sua neve artificiale sullo sfondo dei cantieri. Il perimetro dei Cinque Cerchi si allarga senza sosta, includendo discipline nuove, fotografia della società che sono chiamati a rappresentare, e facendo tutto quanto in loro potere per includere spicchi di mondo rimasti troppo a lungo in disparte. E non mi riferisco soltanto alle Nazioni, ma anche, per esempio, alle donne che fanno sport, non esattamente la categoria prediletta dell’arzillo francese che ha messo in piedi per primo questo magnifico giochino. Chissà cosa direbbe, oggi, il barone Pierre de Coubertin, al cospetto di questa geografia moderna, al cospetto di questa evidente ricerca di una visione d’insieme. Globale. Equilibrata. 100 anni fa, le Olimpiadi francesi, erano state l’espressione di una volontà molto più materiale, molto più opportunista e pratica: una vera e propria polaroid dei tempi che furono, e del personalismo di un movimento che, di fatto, era soltanto all’alba del suo cammino. 
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Olimpiadi Parigi 1924 vs 2024

Credit Foto Eurosport

Si tornò a Parigi, che divenne così la prima città ad ospitare per una seconda volta i Giochi, proprio per soddisfare il desiderio del Barone, padre fondatore delle moderne Olimpiadi, figura di riferimento dell’intero sport contemporaneo, e politico giunto ormai alla soglia dei 30 anni di pontificato. Certo, in qualche modo siamo tutti debitori a de Coubertin, eppure la storia è stata clemente con lui, eliminando, se non dalle biografie almeno dalla memoria collettiva, le zone d’ombra del suo operato. Non fu solo, nel progettare il futuro. Accanto a lui c’era, per esempio, il magistrato inglese William Penny Brookes, che già a metà dell’800 aveva in qualche modo provato a ricostituire i fasti delle antiche competizioni greche. Poco male, la storia ci tramanda l’impresa del barone Pierre, che non riuscì a portare la prima edizione nella tanto amata Parigi, ma che in compenso impose a tutti gli altri di andarci due volte entro i primi 30 anni di movimento Olimpico, coincisi appunto con il suo papato. Si tornò a Parigi, quindi, nel 1924 per omaggiare un grande politico un anno prima della sua pensione e per permettergli di lavare l’onta dell’edizione del 1900, la seconda in assoluto, che non brillò affatto per qualità organizzativa. Una candidatura, quella del ‘24, presentata all’ultimo con una lettera strappalacrime e votata seduta stante, praticamente per acclamazione, per lo sdegno delle altre delegazioni, tra cui quella italiana che aveva proposto Roma e che abbandonò così la riunione del concilio. L’amore di Pierre per la sua creatura era assoluto e totalizzante, tanto che nel corso della carriera dirigenziale non si privò neppure di competere, nel 1912, vincendo un oro, per il poema “Ode allo sport”. Sì, c’erano le medaglie per i migliori poemi e sì, immaginiamo che non dovesse essere facile per i giudici esprimersi con trasparenza sulle rime del fondatore stesso dei Giochi. Ci sarebbe poi, ad onor del vero, anche un’appendice poco gloriosa, per de Courbetin, la breve uscita dal buen ritiro per supportare l’edizione di Berlino 1936, in cambio del sostegno tedesco alla sua candidatura al Nobel per la pace, premio che poi gli svedesi, lungimiranti, assegnarono ad Carl von Ossietzky, un noto giornalista anti-nazista. 
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Parigi 1924: il trionfo della Norvegia nel 6 metri di Vela

Parigi 1924, comunque, fu un grande successo sportivo e propagandistico per i Giochi Olimpici, che uscirono enormemente rafforzati nella loro immagine internazionale. Innanzitutto, nel raddoppiare la proposta, la Francia organizzò anche la Settimana Internazionale degli sport Invernali, che il CIO avrebbe ribattezzato in maniera postuma come i primi Giochi Olimpici invernali. Poi vennero stabilite una serie di “prime volte” che hanno dettato il corso della storia a Cinque Cerchi. Si formalizzò la lunghezza della maratona, per dirne una, prendendo a modello la gara di Londra 1908, e cristallizzando così una distanza che oggi consideriamo semi-sacra, ma che allora era soggetta a modifiche continue. Nonostante non si trattasse della prima edizione con le telecamere presenti, quelle furono le prime Olimpiadi ad essere riprese e montate su un film ufficiale, con tutto ciò che questo comporta a livello di narrativa e di copertura mediatica, tanto contemporanea quanto futura. E non è un caso, infatti, che Parigi 1924 abbia fatto registrare una presenza infinite volte superiore a tutti Giochi precedenti anche in termini giornalistici. L’appuntamento francese battezzò anche l’esordio del motto olimpico, “Citius, Altius, Fortius”, altra presunta invenzione del capofamiglia, che però, in verità, lo prese in prestito da un caro amico, Henri Didon, un prete dell’ordine dei dominicani che lo utilizzava fin da fine ‘800, quando lo coniò per aizzare la folla ad un evento dedicato ai giovani credenti parigini. Non esattamente l’inno al laicismo che ci aspettiamo oggi da qualsiasi Comitato organizzatore. Fatto sta che la frase, recentemente potenziata dalla parola “Communiter”, non sarebbe più uscita dal cerimoniale e dalla narrativa a Cinque Cerchi. Così come non l’hanno fatto neppure le tre bandiere, quella Olimpica, quella della nazione ospitante e quella della prossima nazione ospitante, per la prima volta viste sventolare insieme nell’inedita Cerimonia di Chiusura: novità celebrata nel nuovissimo stadio di Colombe, poco fuori la Capitale, la cui via d’accesso principale venne immediatamente intitolata, ovviamente, allo stesso Pierre de Coubertin.
Il 1924 fu anche la data di nascita del Villaggio Olimpico, oggi una delle fantasie più accese nella psiche e nel desiderio di ogni atleta del Mondo, che a Parigi fece il suo esordio nel libercolo dedicato alle “General Technical Rules”, il manuale base per la realizzazione tecnica dei Giochi. Si trattava di poco più che baracche, con in mezzo un ristorante, una libreria mal-fornita, una piccola linea ferroviaria e un ufficio postale, ma tanto bastò a fare la storia. Bisognava soggiornarci per un minimo di 25 giorni, al costo di 30 franchi al dì, nonostante le proteste formali di molti membri del CIO. Tutti gli italiani ci presero posto. Tutti tranne i calciatori, che preferirono le comodità dell’albergo e la sfrenata vita notturna parigina. 
Dal punto di vista sportivo furono Giochi esaltanti e pieni di epica, ma questo, a ben vedere, non è certo un’unicità. Le Olimpiadi sono più grandi degli atleti che ci partecipano, e per questo è impossibile raccontarne un’edizione senza far emergere ricordi profondissimi, veri e propri pilastri della leggenda sportiva moderna. Detto ciò, non mancarono nomi davvero da copertina, a partire da chi poi sarebbe stato romanzato per decenni, come lo scozzese Eric Liddell e l’inglese Harold Abrahams, velocisti e rivali, che si spartirono le medaglie nei 100 e nei 400 metri piani, come immortalato, per tutti e per sempre, nel film Momenti di Gloria. E poco importa che il programma olimpico, con i 100 metri in calendario di domenica, giorno sacro e quindi intoccabile per lo scozzese, fosse noto da tempo. Questo non impedì comunque al regista e allo sceneggiatore di immaginare e di rappresentare una consecutio temporum molto più cinematografica e drammatica, per il visibilio di generazioni di cinefili. Furono le Olimpiadi, o meglio una delle Olimpiadi, di Johnny Wessmuller, bronzo di Riace del nuoto di inizio secolo scorso, il figlio di un tedesco e di una ungherese, nato in quella che oggi è terra rumena, e che però, per un sotterfugio dei genitori emigranti, difese per tutta la vita i colori americani. Primo uomo sotto al minuto nei 100 stile nonostante una tecnica natatoria rozza e sgraziata, e idolo del pubblico femminile, a Parigi vinse tre medaglie d’oro nel nuoto e una di bronzo nella pallanuoto: una combo neanche lontanamente immaginabile nello sport di oggi. Dopo una seconda spedizione dorata, ad Amsterdam 1928, firmò con la MGM per diventare il Tarzan più famoso del cinema, pur con una legnosità di dizione senza pari e una certa difficoltà davanti alla telecamera. Ci fu Paavo Nurmi, corridore finlandese, che vinse 5 ori nel mezzofondo, dai 1500 alla corsa campestre,  un paio dei quali a meno di un’ora distanza l’uno dall’altro. Poco conosciuto dal pubblico contemporaneo, divenne uno dei primi atleti moderni di sempre, vero imprenditore di se stesso, capace di vendere la propria presenza a meeting ed eventi di tutto il Mondo, monetizzando così il suo talento. Leggenda vuole che l’anno seguente ai Giochi si concesse un trionfale tour negli Stati Uniti, dove vinse 53 gare sulle 55 a cui prese parte nel giro soltanto di un paio di mesi. Per poco, a Parigi 1924, a causa di una malattia, non ci fu anche il 77 enne Oscar Swahn, già il più vecchio vincitore olimpico di sempre, ancora oggi, grazie all’oro messo in saccoccia a Stoccolma 1912 (quando di anni ne aveva 64 e squadra con lui c’era già il figlio 33 enne). C’era anche l’Italia, ovviamente, a Parigi 1924. Una spedizione composta da 197 uomini e da sole tre donne, tutte tenniste, forse l’aspetto in cui il mondo sportivo è, per fortuna, cambiato più radicalmente. Vincemmo tre ori nel sollevamento pesi e due nella ginnastica, oltre ai successi nella marcia, nell’inseguimento a squadre del ciclismo e nella scherma, discipline che ancora oggi, 100 anni dopo, sono fonte di grandi soddisfazioni tricolori. 
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Parigi 1924 - Nuotare con Tarzan: Johnny Weissmuller

Provare a raccontare le differenze e le somiglianze tra le due Parigi, quella che fu e quella che probabilmente sarà, è un gioco complicato, perché significa mettere a sistema gli estremi di un secolo infinito, lunghissimo e pieno di trasformazioni, che ha cambiato per sempre il destino dell’Occidente, della politica e dello sport. Tutto è differente, ad una prima occhiata, con i Giochi che sono diventati il più importante asset mediatico, commerciale e giornalistico dell’intero orizzonte sportivo: il motore di numerose economie, grandi o piccole che siano; il sogno di affermazione o di conferma per decine di migliaia di atleti, a vario titolo, in giro per il Mondo. Eppure, a leggere tra righe, è anche possibile osservare elementi di continuità tra queste epoche distanti, non sempre a complimento della nostra società e dei suoi progressi. Nel 1924, l’invito a partecipare non venne recapitato, per esempio, alla Germania, fresca di sconfitta in una Guerra Mondiale che aveva contribuito ad iniziare, e prossima a intraprendere una deriva politica che ne avrebbe poi cominciata un’altra. Non pervenuta neppure l’Unione Sovietica, a cui non venne concesso di gareggiare sotto i Cinque Cerchi fino al 1952, e all’inizio della Guerra Fredda. La Cina, al tempo quasi un universo parallelo e poco interessato allo sport, aveva iscritto 4 tennisti, salvo poi chiamarsi fuori per lo scoppio della rivolta contadina che avrebbe deposto l’imperatore e instaurato la Repubblica. Dinamiche che, pure con il filtro del tempo e di un vocabolario nuovo, non possono non ricordare i quesiti che ci poniamo oggi, o che ci dovremmo porre oggi, alle porte di Parigi 2024, quando parliamo di boicottaggi e di sanzioni, di Russia e di Ucraina, di Israele, di Palestina, di Iran. Delle dittature e dell’uso politico che fanno dello sport. Così come non è cambiato neppure il dialogo pubblico sul ruolo del professionismo nella nostra cultura, con dinamiche di lungo corso che stanno aprendo una frattura sempre più ampia tra lo sport di base e il vertice, tra il grande campione, spesso pagato dallo Stato, e i giovani praticanti. Riflessioni che già cent’anni fa erano di moda, perché con lo sport, certi atleti sono sempre stati in grado di guadagnare, ponendo così delle domande sul senso e sull’importanza di un evento come i Giochi. Nel bene e nel male, Giochi o non Giochi, siamo sempre l’espressione di un ossimoro vivente: diversissimi eppure uguali a 100 anni fa, incastrati tra la meraviglia di qualcosa di spettacolare e di magico, e la voglia di provare a spostare la tenda per guardare davvero cosa ci sia sotto la narrativa. Chissà cosa diranno di noi, i ragazzi di Parigi 2124.
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